Il tema della liceità o meno di posizionare telecamere nei contesti lavorativi è sempre oggetto di vivo dibattito e di particolari cura ed attenzione. Ancor più se si tratta di telecamere nascoste, che per evidenti ragioni destano ampia perplessità con riferimento alla correttezza del loro utilizzo.
Appare tuttavia innegabile che in alcuni casi l’utilizzo di una telecamera non visibile e non conosciuta da parte di terzi si possa rivelare uno strumento praticamente insostituibile (allo stato della tecnica, quantomeno…) per potere prevenire o comunque perseguire comportamenti illeciti che vengono posti in essere in ambiente lavorativo.
In una realtà ove il tema della security è considerato predominante, è evidente che pertanto occorra individuare quelli che sono i principali presìdi giuridici previsti dall’ordinamento per la corretta gestione della materia, in modo tale da potere operare correttamente ed evitare situazioni di incertezza – se non di responsabilità o di illecito – come accadde in…
Il caso della telecamera nascosta
Tizio, titolare di una farmacia, da qualche tempo aveva suo malgrado dovuto rilevare delle importanti anomalie nello svolgimento della propria attività. Infatti, il contante presente in cassa a fine giornata spesso non si riconciliava con quanto registrato, e non di rado si doveva rilevare che alcuni medicinali sembravano scomparire misteriosamente.
Purtroppo le deduzioni più immediate portavano a ritenere probabile l’infedeltà di qualcuno tra i dipendenti, ed in particolare i sospetti sembravano convergere su Caia, la quale aveva libero accesso sia al magazzino medicinali che alla cassa per le operazioni di pagamento. Ma come ottenere evidenze in tal senso? Consultatosi con la locale stazione dei Carabinieri, Tizio decideva di fare installare alcune telecamere nascoste che riprendessero la cassa ed il guardaroba sul retro del locale, utilizzato dai dipendenti per riporre i propri effetti personali e con accesso all’area dove venivano riposti i medicinali.
Dopo alcune settimane, i sospetti di Tizio trovavano conferma nelle videoriprese: Caia non solo si appropriava del denaro presente in cassa sottraendolo con destrezza durante le operazioni di pagamento da parte dei clienti, ma addirittura prelevava nascostamente quanto illecitamente confezioni di medicinali.
Sulla scorta di tale materiale probatorio Tizio licenziava con effetto immediato Caia e sporgeva atto di denuncia/querela alle autorità competenti perché procedessero a perseguire la sua ex-dipendente per i furti perpetrati, ma per Caia il fatto di essere stata scoperta mediante telecamere nascoste non era accettabile.
La difesa di Caia
Caia ritiene che le videoriprese operate non siano assolutamente lecite, e pertanto non possano essere poste alla base né delle contestazioni che ne hanno portato al licenziamento né di alcun procedimento penale nei propri confronti. Infatti, sostiene che queste rappresenterebbero vere e proprie intercettazioni ambientali che avrebbero dovuto essere previamente autorizzate dall’autorità giudiziaria: le riprese sono state infatti effettuate all’interno senza che il titolare avesse dato alcun previo avviso ai dipendenti, ed inoltre le telecamere poste nel retro dei locali avevano visibilità su di un’area adibita a guardaroba dei dipendenti e pertanto – nell’interpretazione della rea – rientranti nella nozione di domicilio. Di conseguenza, le videoriprese così effettuate non potrebbero in alcun modo essere utilizzate in un procedimento civile o penale in quanto carpite in violazione delle disposizioni normative che vietano le riprese nei luoghi di privata dimora e – forse ancor più – delle disposizioni che disciplinano il controllo a distanza dei lavoratori per come presenti nell’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, avendo anzi il titolare Tizio posto in essere un comportamento che dovrebbe essere sanzionato penalmente ai sensi dell’art. 171 del Codice Privacy.
… ma il diritto è veramente in questi termini?
A prima vista la posizione di Caia sembra presentarsi fondata – per quanto estremamente discutibile sotto il profilo morale. È indubbio che il legislatore abbia voluto considerare con grande prudenza la possibilità di utilizzare mezzi di videosorveglianza nel contesto aziendale, con un approccio che spesso li considera quali extrema ratio – tuttavia occorre rammentare che dette soluzioni non sono vietare tout court, ma devono seguire una serie di presìdi che ne garantiscano la liceità al fine di evitare abusi da parte del datore di lavoro, come più volte abbiamo trattato in passato su questo Giornale.
Occorre pertanto precisare in termini giuridici quali siano i comportamenti posti in essere da Tizio ed a quali condizioni gli stessi possano essere ritenuti legittimi o meno. Per quanto attiene i comportamenti di Caia, ogni valutazione viene lasciata al lettore.
Vogliamo innanzitutto dissipare ogni dubbio sul tema della configurabilità di un locale guardaroba quale luogo di privata dimora: il medesimo risulta essere un locale condiviso con gli altri dipendenti, e per di più adibito ad ulteriori attività (magazzino medicinali, per come sopra descritto) e nessun dipendente poteva pertanto fruirne in via esclusiva e comunque con la pienezza corrispondente a quella del domicilio.
Rientrano infatti nella nozione di privata dimora esclusivamente i luoghi nei quali si svolgono atti della vita privata in modo non occasionale e che non siano accessibili a terzi senza il consenso del titolare, compresi quelli destinati ad attività lavorativa o professionale. Sul punto, la giurisprudenza ha individuato tre elementi caratterizzanti il luogo di privata dimora:
i) l’utilizzazione del luogo per lo svolgimento di manifestazioni della vita privata in modo riservato e al riparo da intrusioni esterne,
ii) durata apprezzabile del rapporto tra il luogo e la persona,
iii) non accessibilità del luogo, senza il consenso del titolare.
Appare evidente che nessuno di questi elementi ricorre nel caso in esame, e che pertanto l’eccezione di Caia in merito è assolutamente infondata.
Quando la telecamera è occulta
Maggiormente delicato è invece il tema relativo alla possibilità che il datore di lavoro installi una telecamera di videosorveglianza nascosta.
È infatti noto che di regola l’utilizzo della videosorveglianza sul luogo di lavoro al fine di controllare a distanza dell’attività lavorativa, è vietata dalla legge – e nello specifico dallo Statuto dei Lavoratori all’art.4, i cui contenuti sono richiamati dall’art. 114 del DLgs, 196/2023 (Codice della privacy). Ovviamente questa regola generale non implica un divieto assoluto di installare sistemi di videosorveglianza in ambito aziendale, subordinando tuttavia la relativa legittimità al ricorrere di requisiti specifici quali esigenze organizzative e produttive, la sicurezza del lavoro e la tutela del patrimonio aziendale, previo accordo sindacale ovvero autorizzazione dell’ispettorato del lavoro, e restando comunque elemento imprescindibile che i lavoratori siano adeguatamente informati.
Ovviamente, una telecamera nascosta al fine di individuare il colpevole di furti se da un lato è evidentemente installata per la tutela del patrimonio aziendale, dall’altro non avrà i requisiti dell’accordo sindacale o dell’autorizzazione e sicuramente non sarà resa oggetto di informativa – elemento quest’ultimo che ne vanificherebbe le finalità precipue. Su questo delicatissimo tema, la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha ritenuto lecito l’impiego di una telecamera nascosta e non segnalata, se la stessa è volta a controllare uno specifico dipendente nei confronti del quale ci siano già dei validi sospetti di comportamenti illeciti.
Non si deve trattare pertanto di un controllo a distanza generalizzato, quanto piuttosto di una forma di tutela della sicurezza aziendale rispetto ad una situazione particolare e transitoria, che l’installazione della telecamera mira a risolvere. L’elemento giuridicamente rilevante è pertanto la protezione del patrimonio aziendale – cui non ostano le disposizioni dello Statuto dei Lavoratori che accanto alla protezione della riservatezza del lavoratore consentono i controlli difensivi sui beni aziendali, con la conseguenza che dette riprese potranno essere utilizzate nel processo sia civile che penale a carico del dipendente.
Evidentemente per rappresentare una forma di legittima tutela e non incorrere nella violazione delle disposizioni di cui agli artt. 4 e 38 dello Statuto dei Lavoratori, ovvero dell’art. 171 del Codice Privacy, l’impianto installato sul luogo di lavoro dovrà essere strettamente funzionale alla tutela del patrimonio aziendale, sempre che il suo utilizzo non implichi un significativo controllo sull’ordinario svolgimento dell’attività lavorativa dei dipendenti e resti riservato al solo fine di consentire l’accertamento di gravi condotte illecite dei medesimi. Del pari, il sistema di videosorveglianza nascosto non può avere un generico scopo preventivo o a campione, né essere rivolto al controllo di persone rispetto alle quali non sussistano sospetti di colpevolezza. Se tali principi sono soddisfatti, le riprese potranno essere considerate lecite ed avere il valore di prova documentale a conferma dell’attività illecita che il datore di lavoro aveva il sospetto che si compisse nella propria azienda.
Le eccezioni di Caia si rivelano pertanto assolutamente inammissibili sotto il profilo giuridico.
La Massima
Con l’aiuto della più recente giurisprudenza della Corte di Cassazione, vogliamo pertanto proporre una massima a corredo del caso sopra esposto, che possiamo descrivere come segue. Il datore di lavoro può installare nei locali della propria azienda telecamere per esercitare un controllo a beneficio del patrimonio aziendale messo a rischio da comportamenti infedeli dei lavoratori, poiché le norme dello Statuto dei Lavoratori tutelano la riservatezza del dipendente, ma non fanno divieto di effettuare controlli difensivi del patrimonio aziendale.
Conclusioni
La giurisprudenza di legittimità con una serie di pronunce, di cui alcune recentissime, ha fornito al datore di lavoro – ed a coloro che questi procederà ad incaricare per eseguire l’installazione – alcuni criteri che consentono di operare con la dovuta certezza del diritto in un contesto estremamente complesso.
A fronte di tale possibilità, che condivisibilmente consente al titolare dell’azienda di proteggere il proprio patrimonio aziendale dall’operato di dipendenti infedeli, sarà comunque sempre necessario rammentare che la delicatezza della materia impone comunque una disamina preventiva delle implicazioni legali per ogni singolo caso, al fine di potere procedere con la giusta tranquillità alla tutela dei propri diritti.
Approfondimenti
Il caso è liberamente ispirato alla sentenza della Corte di Cassazione, Sez. V Penale, 5 agosto 2025, n. 28613.
(testo di Tommaso E. Romolotti e Laura Marretta)